Cuore, rene, polmone, fegato. Sono questi alcuni degli organi che è possibile donare per restituire alla vita chi vive sospeso in attesa di trapianto. Decidere di dare post mortem i propri organi è un gesto di generosità ma anche di grande civiltà. Un atto di rispetto per la vita che, però, ancora troppe poche persone nel nostro Paese dichiarano espressamente di voler compiere.
Proprio di sensibilizzazione all’importanza della donazione degli organi e del ruolo che anche gli odontoiatri possono avere in questo contesto, si è parlato lo scorso 6 novembre a Padova durante il convegno “Dalla prevenzione alla donazione”. Organizzato da ANDI Padova in collaborazione con la nostra Fondazione, l’incontro ha potuto contare sulla partecipazione di Heart of Life, realtà che unisce competenze eterogenee per approcciare trasversalmente il tema della donazione e dei trapianti, e di numerosi esperti del tema.
L’Italia è uno dei paesi europei con la percentuale più alta di donatori eppure siamo ancora ben al di sotto di quella che consentirebbe di azzerare le lunghe liste di pazienti in attesa di ricevere un organo. Per quanto la medicina progredisca, quello dei trapianti è infatti necessariamente un settore in cui il contributo dei singoli cittadini è determinante. “La nostra Fondazione – spiega Evangelista Giovanni Mancini, presidente di Fondazione ANDI – è da sempre impegnata nel diffondere la cultura del benessere e nel sensibilizzare i cittadini sui corretti stili di vita per il mantenimento della propria salute generale. È in linea con questa missione che abbiamo deciso di impegnarci anche sul fronte della donazione degli organi e dei trapianti. Quella di acconsentire in vita alla donazione dopo la morte è infatti certamente una scelta di generosità, ma allo stesso tempo una decisione pragmatica e un gesto fondamentale di salvaguardia della salute. Anche della propria. Maggiori sono infatti l’adesione e la diffusione della cultura della donazione, maggiore è la possibilità anche per il singolo di poter essere adeguatamente curato in caso di necessità. Questo è un aspetto della medicina in cui la ricerca scientifica da sola non basta: per salvare la vita di migliaia di persone serve anche un costante lavoro di sensibilizzazione. Come odontoiatri e sanitari sempre attenti ai bisogni dei nostri pazienti ci stiamo impegnando a fare la nostra parte.”
La prima risposta concreta è stato il convegno di Padova. “Questa giornata di lavori organizzata da ANDI Padova e Fondazione ANDI – dichiara Ferruccio Berto, vice presidente nazionale ANDI – è nata con l’obiettivo di contribuire a creare e ampliare la cultura della donazione, innanzi tutto tra i soci ANDI e poi tra i nostri pazienti. Siamo molto felici del successo dell’iniziativa dovuto anche alla partecipazione di illustri colleghi, medici esperti nel campo della trapiantologia, che ci hanno aiutati ad affrontare con qualità e competenza un tema tanto importante”.
Tra loro anche il dottor Francesco Calabrò, uno dei pionieri dei trapianti in Italia, che da medico si è trovato all’improvviso paziente, con urgente bisogno di un trapianto di cuore. Un’esperienza che gli ha cambiato la vita e lo ha spinto a raccontare la sua storia per far capire quanto sia importante donare gli organi. “Ho fatto il chirurgo toracico dal 1971 al 2013 – ha raccontato. – Inizialmente a Padova, dove ho realizzato a partire dal ’95 i primi quindici trapianti di polmone della nostra regione, e poi a Verona. Nel 2008 ho avuto l’incarico di coordinatore del Centro trapianti regionale. Ho organizzato tutto il sistema di gestione delle donazioni degli organi, dei prelievi, e degli interventi chirurgici. Poi, nel 2013, mi sono improvvisamente trovato dall’altra parte della barricata: per uno strano gioco del destino sono passato da chirurgo a trapiantato di cuore. Oggi sto bene e mi impegno a vivere per far battere il più a lungo possibile il mio nuovo cuore per onorare così chi me l’ha donato. Senza persone come quella i trapianti non si farebbero. Per questo dico a tutti: donate!”
Approfondiamo con l'esperto
Intervista al dottor Francesco Procaccio, già Direttore del Reparto di terapia Intensiva Neurochirurgica dell’Azienda Universitaria Integrata di Verona, oggi advisor del Centro Nazionale Trapianti e membro della Task Force dell’OMS per la donazione e il trapianto.
Qual è l’attuale situazione delle donazioni e dei trapianti in Italia?
L’Italia è cresciuta moltissimo negli ultimi venti anni in termini di quantità e qualità degli organi donati. Negli anni novanta eravamo al penultimo posto a livello europeo, subito prima della Grecia, per numero dei donatori mentre oggi siamo risultati tra i migliori, anche a livello mondiale, grazie a un’organizzazione capillare in tutti gli ospedali con la presenza di medici coordinatori della donazione e dell’impegno sempre maggiore del personale delle rianimazioni.
Nonostante questo, i risultati ottenuti – circa 1.300 donatori all’anno di organi utilizzati per effettuare 3.300 trapianti principalmente di reni, fegato, polmoni, cuore, pancreas, ma recentemente anche di mani, faccia, utero oltre a cornee, cute e altri tessuti – sono notevolmente insufficienti a colmare il divario con la necessità di trapianto per circa 9.000 pazienti in lista di attesa.
L’aspetto più problematico in Italia è la notevole disomogeneità tra le varie aree del Paese che vedono livelli di eccellenza in alcune regioni mentre in altre, in particolare nel centro-sud, le donazioni sono molto inferiori alla media. La ragione non è solo il grande numero di opposizioni alla donazione (fino al 50% in alcune aree) ma è soprattutto la scarsità di potenziali donatori identificati nelle rianimazioni. Pur recepito da tutte le regioni ma scarsamente messo in pratica, il Piano Nazionale di Donazione ha per questo come principale obiettivo proprio quello di fornire supporto organizzativo e culturale alle regioni meno virtuose e, in particolare, al personale delle rianimazioni. Ciò promuovendo un nuovo modello operativo, già diffuso con successo in altri paesi, che ha al centro la figura di infermiere specialista dedicato a tempo pieno alla donazione. Occorre inoltre un’alleanza con le società scientifiche dei medici e infermieri di tutta l’area critica dell’ospedale, dal pronto soccorso alla neurochirurgia e alla stroke unit, oltre ai reparti di terapia intensiva e rianimazione, per realizzare programmi di formazione continua e aumentare così l’attitudine dell’ospedale alla donazione. Infine serve un vasto programma a livello nazionale rivolto ai cittadini per abbattere i livelli di opposizione espressa in vita o, in mancanza della volontà espressa in vita, il consenso dai familiari dei pazienti in rianimazione.
Che impatto ha avuto la pandemia sulla rete dei trapianti?
Nei primi mesi del 2020, all’inizio della pandemia, vi è stata una notevole diminuzione delle donazioni, con una successiva progressiva ripresa che tuttavia non ha ancora raggiunto i risultati del 2019. In conseguenza nel 2020 i trapianti effettuati in Italia sono stati il 10% in meno, comunque con un andamento molto migliore rispetto ad altri Paesi europei come la Francia (25% in meno), la Spagna e la Gran Bretagna, rispettivamente con una diminuzione del18% e del 26%. Questo significa che, nonostante la pandemia abbia drammaticamente impegnato le strutture e il personale nella cura dei pazienti affetti da COVID-19, l’organizzazione consolidata della rete nazionale donazione e trapianto, oltre alla motivazione degli operatori delle rianimazioni, hanno permesso di contenere la diminuzione di attività, mantenendo gli standard avanzati di qualità e sicurezza che caratterizzano il nostro Paese in questo settore della medicina. Inoltre, l’esperienza acquisita ha permesso, primi al mondo, di utilizzare in sicurezza organi prelevati da soggetti che in precedenza erano risultati COVID-19 positivi. Infine, un importante obiettivo realizzato è stato quello di vaccinare a oggi più dell’80% dei pazienti trapiantati, con più del 50% già sottoposti alla terza dose.
I dati dicono che nel 2020 il numero dei donatori in Italia è diminuito ed è aumentata la percentuale di opposizioni espresse nelle dichiarazioni di volontà raccolte dai comuni. In Italia esiste una cultura della donazione degli organi e come è possibile rafforzarla?
In Italia la legge 91 del 1999 prevede che ogni cittadino possa esprimere la propria volontà in vita rispetto alla donazione di organi e tessuti dopo la morte e il principio silenzio/assenso, ovvero che la mancata dichiarazione di volontà sia considerata equivalente all’assenso. Un principio però non ancora applicato perché ad oggi viene lasciata alla famiglia la possibilità di opporsi in mancanza di volontà espressa in vita. Osservando le decisioni depositate con i vari metodi possibili, inclusa la richiesta in comune a ogni rinnovo della carta di identità o presso le ASL e i medici di famiglia, colpisce come circa il 30% siano opposizioni, il 40% negli over sessanta.
Nonostante le continue campagne di sensibilizzazione di istituzioni e associazioni di volontariato, ancora moltissimi rifiutano di esprimersi in Comune. Da una parte perché consapevoli di essere impreparati culturalmente ed emotivamente, dall’altra perché poco fiduciosi nei confronti delle istituzioni sanitarie e della certezza della diagnosi di morte cerebrale.
È evidente che la sollecitazione a donare come gesto di bontà e di amore per il prossimo, oltre che di atto eccezionale di sensibilità sociale, non ha sin qui portato a grandi risultati. Personalmente, penso che si debba spiegare meglio la motivazione della donazione, usufruendo in particolare di un rapporto fiduciario consolidato tra cittadino/paziente e medico curante. In questo senso il medico odontoiatra può rivelarsi una delle figure con maggiore possibilità di successo.
La scelta di essere dopo la morte un donatore dovrebbe essere considerata come un reale “investimento” per la propria salute e per quella dei propri cari oltre che della comunità. Questo perché si contribuisce a quel preziosissimo patrimonio della medicina che garantisce di poter disporre in tempo utile di un trattamento, così efficace quanto unico, come quello del trapianto. Questo patrimonio di cura è oggi reso insicuro e fragile dalla mancanza di scelta in vita in favore della donazione. I pazienti che muoiono in lista di attesa sono un grido di rabbia verso tutti coloro che non comprendono che la volontà di donare dopo la morte, solo se espressa dal più vasto numero di cittadini, costituisce l’unica polizza di assicurazione perché tutti quanti possano disporre un giorno, se necessario, di un trapianto. “Senza donazione non c’è trapianto” è il semplice messaggio che andrebbe sempre riproposto nell’ambito di una corretta educazione sanitaria.